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La copertina di Amore nel pomeriggio che contiene "Caldo e scuro"
Ascolto De Gregori da più di quattro decadi, dai tempi di "Bene" e "Ultimo discorso registrato", millenovecentosettantasei. Mi piace perché certe sue canzoni ti costringono a usare tante chiavi di lettura; questo mi ha aiutato ad avvicinarmi alle cose senza avere la presunzione di capirle sempre, e non parlo solo di fatti musicali. Poi il fato - o meglio, l'amato prof. Melchionda - mi ha fatto "incontrare" Bob Dylan, al cui brano dall'eloquente titolo "It Ain't Me, Babe" ho aderito subito, per cui sono da tempo 'vaccinato' al pericolo di diventare il devoto fan di qualcuno.
Non è un mistero per nessuno che De Gregori e Dylan frequentino territori di ispirazione comuni; tutti sanno chi dei due li ha attraversati per primo, ma per me la cronologia conta poco, non sono un critico né uno storico musicale. Tuttavia, posso affermare che entrambi sono tra i miei riferimenti principali nell'universo letterario della musica d'autore.
"Caldo e scuro" è una canzone del 2001, l'album è "Amore nel pomeriggio".
La ascolto da tempo, con la sua introduzione - molto lenta - che non promette niente di allegro.
Poi inizia il canto:
"Sono venuto nella tua città un giorno
era caldo e scuro poteva essere mezzogiorno ma non ne sono sicuro. Avevo tempo da perdere da guadagnare niente non c'eri tu nell'aria sensibilmente"
Per ascoltare e apprezzare De Gregori servono disponibilità generale ed empatia. Si capisce fin da subito che il protagonista di "Caldo e scuro" è un tipo poco organizzato, sicuramente sprovvisto di orologio e telefonino, ma forse non di intuito, dal momento che intuisce già nella prima strofa che tanto lei non c'è. Per me non è difficile mettermi nei panni di questo incauto cercatore. Mi è capitato spesso di girare per le città, di avere tempo da perdere e niente da guadagnare, privo di motivazioni e possibilità di consumare un pranzetto veloce:
C'erano macchine ferme Sulla tangenziale E occhi al finestrino Che respiravano male. Avessi almeno potuto scendere E fermarmi a mangiare Ma i ristoranti erano tutti pieni E non avevo fame
Ormai, sopraffatto dall'empatia, sono dentro al film, autopromosso al ruolo di protagonista. E poi che cosa succede? Trovo un parcheggio, faccio due passi, mi trovo di colpo dentro a un portone, ma non il suo portone, un portone qualsiasi; all'interno trovo un grande ascensore, dove mi vengono rivolte domande sulla mia vita interiore.
E sono entrato in un portone E dentro un grande ascensore E mi hanno fatto domande Sulla mia vita interiore. Ed in qualcuna delle mie risposte c'era il tuo nome Mentre la tua città prendeva fuoco Sotto al sole
E' chiaro: la realtà è una luce che si accavalla con le ombre del sogno. Giorno e notte. Caldo e scuro. E chi sono questi personaggi che mi rivolgono domande sulla mia vita interiore? Ebbene, sono stato in grado di rispondere; e conta ancora di più il fatto che non ho chiesto niente di lei, non ho preso informazioni: lei era in qualcuna delle mie risposte. In qualcuna delle mie risposte c'era il tuo nome. Lei appartiene al versante delle risposte, delle certezze, dei fatti. Non ci sono dubbi, né punti di domanda.
Uscito dall'ascensore, mi ritrovo solo e mi sento piccolo di fronte alla sua foto sul muro; mi sento anche un po' offeso, come tutti i cercatori che arrivano secondi o comunque fuori tempo... pertanto, a questo punto, è meglio lasciare la città il più presto possibile; del resto, che cosa c'è di più sgradevole e degradabile di una foto sul muro, da cui si evince - come ferita da cicatrice - che il suo sorriso è rivolto a qualcun altro?
Così mi son sentito piccolo
Come un chicco di grano
Quando ho guardato la tua foto sul muro
Ed ero già lontano
Tu sorridevi a qualcuno
Qualche anno prima
Ed io ho pensato, sarà meglio lasciare questa città
Prima che sia mattina
Prima della strofa che chiude la canzone, c'è un passaggio strumentale che segue la progressione armonica delle strofe, così ho il tempo di pensare: che cosa succederà adesso? Perché sono andato nella sua città? Dove sto andando adesso? Come sono messo? Come sto?
Che cosa ho imparato?
Le risposte sono qui, nell'ultima strofa:
Ed ho imparato che l'amore insegna Ma non si fa imparare E ho giocato a nascondermi E a farmi trovare Ed ho provato a smettere di bere e a ricominciare E sono stato bene E sono stato male
Nel chiaroscuro della vita, nell'andirivieni delle relazioni, c'è sempre qualcuno che ci sta cercando, che sta tentando di farsi trovare, qualcuno che si nasconde. E allora si può provare a smettere di bere e si può ricominciare, si può provare sia a mettercela tutta che arrendersi di fronte alla propria fragile storia. Si può imparare ad accettarsi, e soprattutto si può provare ad amare, a tuffarsi, accettandone i rischi.
"Caldo e scuro" sembra dunque suggerire, o perlomeno suggerisce a me, che l'amore non si impara, non è materia scolastica perché nessuno lo può insegnare; l'amore si cerca, si fa, si costruisce, si celebra; l'amore si perde, sconvolgendo le certezze e lasciando solo domande; ma l'amore insegna e si consolida anche attraverso gli errori, se sono rimediabili; l'amore non ha risposte precotte o riutilizzabili, l'amore è una ricerca, un viaggio spesso irrazionale, confuso, perfino folle.
Ma che può farci bene.
NOTE:
"It Ain't Me Babe", in Another Side of Bob Dylan, 1964: trad. Non sono io (quello che stai cercando). Nel 2012 De Gregori scriverà "Guarda che non sono io".
E' noto anche il fatto che successivamente, nel 2015, De Gregori, con De Gregori canta Bob Dylan - Amore e furto, ha tradotto e interpretato, "con amore e rispetto" , 11 canzoni di Bob Dylan
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